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domenica 6 marzo 2016

Black Sabbath Black Sabbath ( Vertigo Records 1970)













Birmingham, Inghilterra, fine anni Sessanta, nel circuito dei locali rock della zona si nota una band, gli Earth, devota al blues ed al rock and roll dell'epoca che si sta facendo strada tra le decine di musicisti locali. Hanno buona tecnica e suonano in ogni buco, ma serve qualcosa per emergere dall'anonimato e dalla miseria di una città industriale che si sta rimettendo in piedi dopo gli sfaceli della Guerra. La sfortuna si abbatte sul loro chitarrista, Anthony "Tommy" Iommi, che perde due falangi in un incidente di lavoro e deve rivoluzionare il suo modo di suonare lo strumento, portandolo a sperimentare nuove sonorità che si riveleranno un intuizione geniale per il futuro della band. Cosi come l'interesse per l'occulto, l'esoterismo e gli horror movie da parte del bassista, Terence "Geezer" Butler che darà una svolta all'immagine, ai testi ed al nome della band stessa che deciderà di chiamarsi Black Sabbath, in onore di un vecchio film di Boris Karloff. La ciliegina sulla torta viene dal cantante, John Michael Osborne, detto Ozzy, folle e dedito al consumo smodato di alcolici, ma con un carisma unico sulle assi del palcoscenico.
Con queste premesse si affaccia sul mercato nel 1970 il primo album, omonimo, con una copertina inquietante che lascia presagire i contenuti malevoli e cupi del disco: una Madonna Nera che si staglia nella brughiera inglese, un immagine offuscata che fa da preludio alla prima canzone, Black Sabbath appunto, aperta da campane a morto, lo scrosciare della pioggia e da suoni sinistri: da questo momento nulla sarà più come prima!!
Dalla titletrack ( che parla di una messa nera) a N.I.B (Nativity In Black) ci sono riferimenti continui al Diavolo ed alle sue manifestazioni, ma sono i suoni che cambiano completamente rispetto al passato complici anche le tonalità di chitarra ribassate e la voce allucinata di Ozzy Osbourne, vero sciamano in preda ad un trip lisergico.
Il passato blues è ancora forte come in The Wizard o Evil Woman, ma è l'ultimo legame che i Sabbath avranno con la loro precedente incarnazione. ormai il sasso è stato gettato nello stagno e si è creato il flusso giusto che li porterà ad incidere il secondo album, Paranoid ed entrare nella leggenda.
Sicuramente questo non è il capolavoro dei Sabbath, anzi  ci sono ancora angoli da smussare ed una personalità da costruire al cento per cento, ma è il punto di partenza di una carriera che dura da oltre quarant'anni ed ha dato vita al movimento metal ed al suo immaginario legato al soprannaturale ed all'occultismo, cosi come ai suoi sottogeneri, il doom metal su tutti, caratterizzato da suoni lenti, cupi e scarni come vuole la titletrack che apre questo disco.
Da riscoprire ed adorare!!
Black Sabbath Official Page
Spotify



venerdì 8 gennaio 2016

Sol Invictus Faith No More ( Reclamation Recording/Ipecac records 2015)













Sono passati ben 18 anni dall'ultima uscita discografica dei Faith No More! Avete idea di cosa sono 18 anni? Cosa ne è passata di acqua sotto i ponti in questo lasso di tempo? Provate a fare uno sforzo e ripensare cosa stavate facendo 18 anni fa, dove eravate, che musica ascoltavate? Se per noi comuni mortali è impegnativa la cosa, per il music business è paragonabile ad un era geologica, ma i Faith No More, paladini dell'alternative e della follia durante gli Anni Novanta se ne fregano e, dopo aver testato il terreno qualche anno fa con una celebrata reunion, hanno deciso di suggellare il loro idillio musicale con un ritorno alle scene discografiche.
Giusto per non smentirsi scelgono di fare tutto in casa, utilizzando l'etichetta del frontman Mike Patton e la supervisione in fase di produzione del fido bassista Billy Gould. D'altronde chi conosce i FNM sa che se ne son sempre strafregati delle logiche di mercato e hanno sempre fatto di testa loro, spiazzando fan e critici nel proporre musica a 360 gradi senza porsi limiti di alcun tipo.
Ma quindi come è questo Sol Invictus? Spiazzante, sperimentale ed assolutamente anticommerciale, in poche parole bentornati Faith No More!!!
Nel calderone di atmosfere cupe ed oscure, un pò come la cover del disco, troviamo l'hard rock ignorante di Superhero, primo singolo prescelto(ma lontano anni luce dal concetto di "singolo"),la claustrofobia ansiogena di Separation Anxiety, le aperture di Motherfucker ( e qui Patton non si smentirà mai!!) a fare da contraltare allle melodie alla "I'm Easy" di Sunny Side Up e Black Friday e quel piccolo gioiello in bilico tra rock duro, progressive e pruriti indies di Matador.
I FNM suonano per se stessi, per superare ancora una volta quelle barriere che più volte hanno infranto senza fossilizzarsi sui fasti del passato. Ognuno ci mette del suo, soprattutto Mike Patton, istrionico, imprevedibile che usa la voce come un vero e proprio strumento, districandosi tra urla, tonalità basse e cupe e melodie ben assortite da vero "leader of men" parafrasando il ritornello di Superhero.
Non è un album da easy listening, ma richiede attenzione e concentrazione, bisogna lasciarsi prendere per mano e farsi guidare in questa nuova avventura musicale della band e mai un ritorno fu più gradito:sicuramente non lo si annovererà trai capolavori della band, ma sono pronto a scommettere che, come il precedente Album of the Year, verrà capito con gli anni a venire ed usato come pietra di paragone per molte nuove bands che avranno voglia di osare.
Ecco i Faith No More versione 2015, ma adesso non fatemi più aspettare altri 18 anni altrimenti rischio di diventare una comparsa per il video di Sunny Side Up!
Faith No More Official Site
https://www.facebook.com/faithnomore/
Sol Invictus-Spotify








               



































































lunedì 1 settembre 2014

Water Shape The Black Rain (Atomic Stuff Records 2014)












Ecco un' altra produzione targata Atomic Stuff Records, piccola label italiana che sta compiendo parecchio movimento nel sottosuolo musicale tricolore puntando sempre più spesso su bands sconosciute ma molto interessanti.
Da pochi mesi è uscito questo secondo album dei The Black Rain, hard rock da Bologna che mi ha impressionato sin dai primi ascolti per la capacità di scrivere ottime canzoni dotate di tiro e melodia e soprattutto una versatilità che trascende i generi, spaziando dagli stilemi più classici fino ad abbracciare anche sonorità più attuali.
Infatti all'interno di questo disco possiamo trovare momenti più Anni Settanta come Mesmerize, che si regge su riff rocciosi e taglienti figli di quella pietra miliare chiamata Black Dog della premiata ditta Page & Plant, ma anche melodie più easy e veloci come She's So Amazing o Robert Johnson, potenti cavalcate che se fossero state incise nel periodo d'oro dell' hard rock/ AOR americano avrebbero fatto sfracelli.
Tutto qui vi starete chiedendo?e no invece ci sono alcuni episodi che meritano davvero molta attenzione, come Rock and Roll Guy, ballad che sa di polvere e asfalto, di sudore e fatica e che ti si appiccica addosso come un paio di vecchi jeans, talmente comodi che non vorresti mai farne a meno.
Times of Trouble è oscura, malinconica come solo Soundgarden e Temple of the Dog sapevano fare: il cantato di Mirko Greco trascende qualsiasi catalogazione regalandoci una prestazione ricca di sentimento e passione, elementi che raggiungono il loro zenit in Without Love, altra ballad che riesce davvero ad arrivare li dove deve colpire e cosa sarebbe potuta diventare se la produzione fosse stata davvero all'altezza di questa composizione.
Ebbene si, se devo trovare un difetto è proprio nella resa sonora, che se fosse stata più "potente" e meno ovattata avrebbe davvero regalato il top di capolavoro per questo album.
Il finale sorprende ancor di più con King of Stones, la traccia più sperimentale di tutto il disco, giocata su parti lente e stacchi più aggressivi, tutte nel segno di un hard rock oscuro che lambisce  territori quasi metal.
Una traccia da ascoltare e riascoltare più volte per carpirne al meglio le sfumature e gli ottimi inserti di chitarra presenti al suo interno.
In definitiva un ottimo lavoro che, nonostante le evidenti influenze musicali, riesce a stare in piedi da solo grazie a delle notevoli capacità compositive e ad un livello tecnico davvero alto, ma soprattutto è l'ennesimo segnale che in Italia ci sono band valide che meritano di uscire dall'anonimato e che meritano maggiori riconoscimenti.
www.theblackrain.com
https://www.facebook.com/pages/The-Black-Rain/137533619623054
The Black Rain – Water Shape



venerdì 10 gennaio 2014

Revelations Loud Nine (autoprodotto 2013)












E' di pochi giorni fa la polemica che vede coinvolto il regista livornese Paolo Virzì per alcune sue frasi che descrivono la Brianza come una terra popolata da avidi squali divisi tra lavoro, denaro e ville bunker avvolte nella nebbia. Molto probabilmente il buon Virzì non sa che negli ultimi anni la Brianza ha regalato un attiva e proficua scena musicale indipendente che vede coinvolti molti nomi, locali e uscite discografiche originali e di ottimo livello.
E' il caso dei Loud Nine, giunti al secondo album, rigorosamente autoprodotto che fa da seguito al debutto Golem(2009), un ottimo disco di stoner/ rock and roll che faceva ben presagire sul futuro della band.
Con questo Revelations i Nostri, oltre ad ampliare la line up a due chitarre, confezionano un lavoro molto elaborato e professionale, a partire dalla cover e dal booklet interno, fino alla parte musicale con brani molto elaborati e ben strutturati ed un occhio particolare verso gli arrangiamenti.
Le linee guida della proposta musicale riprendono le nuove tendenze in ambito alternative/metal d'oltreoceano e mi vengono in mente gli ultimi Mastodon ,i Queens of the Stone Age o i Foo Fighters di Dave Grohl, ma questi paragoni non devono fuorviare sulla qualità di questo album, formato da brani che stanno in piedi da soli,caratterizzati da una forte personalità e da un suono che rende i Loud Nine perfettamente riconoscibili ed originali.
Lo strumentale Locomotive è il preludio per una pioggia di riff heavy e pastosi come in Carson e Platinum, soprattutto quest'ultima con un finale esaltante con le chitarre che si intrecciano in linee melodiche assolutamente coinvolgenti. La voce è aggressiva e conferisce toni molto vicini al  groove del metal, tanto che in molti passaggi mi sembra di sentire quelle sonorità che fecero successo in Scandinavia un decennio fa (Sentenced su tutti).
Zeta è un lungo brano molto articolato che racchiude tutte le caratteristiche della band: tecnica, potenza e melodia, quest'ultima componente la fa da padrone in Burn, ottima presentazione nel primo video della band.
Anche la titletrack è una elaborata e complessa song che merita ascolti approfonditi per poter carpire appieno tutte le sfumature, mentre la chiusura è riservata ad Hurricane, un'esperimento acustico che riporta in mente le Desert Session al Rancho de la Luna di Josh Homme.
Insomma le potenzialità per crescere ed esplodere i Loud Nine le hanno, speriamo che trovino una line up stabile ed un contratto discografico che garantisca loro più visibilità  e possibilità di suonare in giro.
Nel frattempo procuratevi questo Revelations e ascoltatelo a tutto volume! Non ve ne pentirete!
Official Site
https://www.facebook.com/LoudNine
Loud Nine – Revelations (spotify)



domenica 20 ottobre 2013

Heartwork Carcass (Earache Records 1994)












Nell'Inghilterra di fine anni Ottanta si sviluppa un movimento di musica estrema che fa capo ad una label discografica destinata a divenire di culto negli anni a seguire: la Earache Records.
Il "Mal d'Orecchie" si espande anno dopo anno facendo conoscere band intransigenti che fanno dell'estremismo sonoro il loro manifesto musicale.
Sto parlando, tra i tanti nomi, di Napalm Death, Cathedral, Bolt Thrower e anche i Carcass.
Il quartetto proviene da Liverpool e si distingue, nei suoi primi album, per un suono marcio e saturo, riconducibile al filone "grind core", con testi che sembrano presi da un quaderno di appunti di un patologo criminale tanto i riferimenti all'anatomia umana sono dettagliati, cosi come lo sono dissezionamenti e mutilazioni.
Ma la svolta della loro carriera avviene con l'uscita di Heartwork, nel 1993, un album diverso e maturo che lascia tante aperture melodiche al loro sound e li farà conoscere al di fuori della cerchia dell'underground estremo.
L'innesto di un nuovo chitarrista nella line up, ovvero lo svedese Michael Ammott, è il principale motivo di questo cambiamento. Il suo modo di suonare si avvicina molto al metal classico ed anche gli assoli ora sono ben strutturati con un ottimo taglio melodico, lontano anni luce dalle sfuriate dei lavori precedenti.
Per il resto, complice anche una produzione eccezionale, l'album suona compatto e monolitico con una gamma di riff da spaccare il collo.
La titletrack sta ai Carcass come Master of Puppets sta ai Metallica: è il loro capolavoro, la canzone da lasciare ai posteri come eredità da tramandare: il ritmo ossessivo dettato da quella macchina macina riff di Bill Steer, la voce gutturale di Jeff Walker che distorce le parole dei testi, gli assoli di chitarra che si rincorrono lungo i quattro minuti di durata e un appeal che potrebbe essere anche commerciale( per quanto possano essere commerciali i Carcass), ma è davvero difficile resistergli.
Anche i testi di questo album si discostano dalle tematiche dei dischi precedenti: vengono trattati temi come la guerra, il lavoro e la politica ( non dimentichiamo che i ragazzi provengono da Liverpool, città portuale che in quegli anni ha vissuto una crisi economica non indifferente), ma anche argomenti più intimi e personali come l'amore e la ricerca interiore.
L'opener Buried Dreams (andate ad ascoltare che assolo ci mette dentro Michael Ammott!!) è una dichiarazione di guerra che si apre con il grido
                      Welcome to a World of Hate,a Life of Buried Dreams
un grido di mera frustrazione dove è la disperazione a farla da padrone

When aspirations are squashed
When life's chances are lost
When all hope is gone
When expectations are quashed
When self esteem is lost
When ambition is mourned

All you need is hate 

La successiva Carnal Forge, forse la più vicina al passato dei Carcass, soprattutto per il lessico molto gore oriented si schiera contro la guerra, contro la carneficina di corpi mandati al mattatoio dei campi di battaglia ed è un altro highlight di questo album.
Il songwriting è sempre caratterizzato da una sorta di humour nero, basti pensare alla traccia Arbeit Macht Fleish ( la scritta che campeggiava sul cancello di Auschwitz), la loro personale visione sulla alienazione data dal lavoro in fabbrica, dove se ne esce consumati e svuotati nell'animo.

Up to the hilt, depredated

Raw materialism
To stoke the furnaces
Toiling, rotting
Life slowly slips away
Consumed, inhumed
In this mechanized corruption line
By mincing machinery industrialised - pulped and pulverised
Enslaved to the grind

No Love Lost e la stessa Heartwork hanno tematiche più personali, come l'amore e le relazioni interpersonali, segno di un ulteriore maturità della band stessa che va di pari passo alla svolta melodica di questo album che non conosce momenti di calo e raggiunge la perfezione quasi assoluta.
Con gli anni questa pietra miliare diverrà il simbolo di un nuovo movimento all' interno della comunità metal, soprattutto in Europa, visto che verrà preso ad esempio come capostipite della scena death melodica che si svilupperà in Scandinavia e vedrà protagonisti At The Gates, Dark Tranquillity ed In Flames.
Per quel che riguarda la carriera dei Carcass, purtroppo non riuscirono a dare un degno seguito ad Heartwork, rilasciando un disco scialbo ma dal titolo profetico come SwanSong, forse distratti dai troppi progetti paralleli dei singoli membri della band, cosa che portò allo scioglimento della band stessa e la conseguente, in tempi recenti reunion richiesta a furor di popolo.

A canvas to paint, to degenerate
Dark reflections - degeneration
A canvas to paint, to denigrate
Dark reflections, of dark foul light


venerdì 26 luglio 2013

Paranoid Black Sabbath (Vertigo Records/EMI 1970)












A volte il destino sa essere davvero strano se si pensa che una canzone pensata, scritta ed interpretata in poche ore, giusto per riempire il minutaggio di un disco, diventi un hit di successo mondiale, ma anche il manifesto di un genere musicale che sarebbe ancora dovuto venire.
Si perchè Paranoid, con due accordi basilari è diventata la canzone più famosa dei Sabbath, nonchè lo start up di tutto quel movimento heavy metal che si sarebbe sviluppato  nel decennio successivo.
In origine questo album, il secondo per la band inglese, si sarebbe dovuto chiamare War Pigs, chiara invettiva contro i governi, in particolar modo quello americano colpevole della guerra in Vietnam. Ma per evitare la scure della censura, il management dei Sabbath cercò un escamotage e sentendo le potenzialità di Paranoid stravolse tutto rinominando l'album e trasformando la copertina con un immagine sfocata di un "samurai-cosmico" che brandisce una spada, quando all'origine il personaggio in questione avrebbe dovuto avere una maschera da maiale.
Ad ogni modo quello che viene consegnato alla storia è un disco fondamentale, capace di creare un suono nuovo, lontano dagli stilemi blues e folk di altre grandi band dell'epoca come Deep Purple e Led Zeppelin.
L'opener War Pigs, nonostante tutto, rimane una delle più belle canzoni della band, dove Ozzy si autoproclama gran cerimoniere recitando i suoi salmi carichi di odio contro i governi militaristi dell'epoca, mentre Iommi macina grandiosi riff saturi ed assoli di pregevole fattura, senza mai strafare,ma sempre calibrando le giuste note ed armonie.La batteria di Ward è scarna ed essenziale ma tellurica allo stesso tempo.
Generals gathered in their masses
Just like witches at black masses
Evil minds that plot destruction
Sorcerer of death's construction
In the fields the bodies burning
As the war machine keeps turning
Death and hatred to mankind
Poisoning their brainwashed minds, oh lord yeah!

L' altra perla dell'album è Iron Man, caratterizzata da un riff granitico di Iommi, che da solo farà da nave-scuola a tutte le successive bands doom e stoner dei due decenni successivi. La voce di Ozzy è distorta e robotica nei secondi iniziali per poi lasciarsi andare nella narrazione fantastica di un viaggiatore del tempo, che, essendo stato nel futuro ha visto la fine del genere umano.
Tornato nel suo passato per avvertire la gente, entra in un campo magnetico la sua pelle diviene d'acciaio (Iron Man) e lui perde l'uso della parola .Deriso dai suoi simili impazzisce ed in cerca di vendetta distrugge il genere umano facendo avverare cosi ciò cheha visto nel futuro.
Aldilà della storia inventata di sana pianta da Butler, da sempre appassionato di horror e sci-fi, la denuncia sociale è evidente, in un contesto teso per la Guerra Fredda ed il Vietnam, visto da ragazzi che uscivano dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale
Nobody wants him 
He just stares at the world 
Planning his vengeance 
That he will soon unfurl 

Now the time is here 
For Iron Man to spread fear 
Vengeance from the grave 
Kills the people he once saved


Il resto dell'album offre altre perle come la ipnotica e sognante Planet Caravan oppure la schizofrenica Electric Funeral, cronaca di un ecatombe nucleare che si alterna tra parti lente ed altre più sostenute.
Su Hand of Doom, troviamo tanti spunti che verranno sfruttati negli anni a venire ( lo stesso termine "Doom" la dice lunga...), mentre il finale è affidato alla delirante Fairies Wear Boots, forse la canzone più leggera del disco, ma non di meno interessante.
A conti fatti questo è uno dei capisaldi della storia della musica rock che, oltre a regalare grandi pezzi ha dato vita ad uno dei generi musicali più popolari di sempre: l'heavy metal, con tutte le sue sfumature.
Più avanti i Sabbath sperimenteranno nuove soluzioni diventando sempre più i leader di un certo tipo di hard rock e guadagnandosi il rispetto incondizionato dei fans per i successivi 40 anni.
www.black-sabbath.com
spotify:album:714ndVxSx8lIWhQxdbcXIs
















mercoledì 17 luglio 2013

All Hell Breaks Loose Black Star Riders (Nuclear Blast 2013)












In principio ci fu una reunion con lo storico monicker THIN LIZZY, che vedeva il chitarrista superstite Scott Gorham, Brian Downey alla batteria e Darren Warthon alle tastiere, insieme ad altri musicisti, portare in giro per il mondo un tributo alla band irlandese ed al suo leader Phil Lynott, scomparso nel 1984.
Con tutti i pro e contro del caso, in primis, l'utilizzo del nome storico per una tribute band vera e propria, diciamo che l'interesse per i Thin Lizzy si è ridestato ritrovando fans vecchi e nuovi che piano piano hanno affollato  le svariate venues dove i nostri si esibivano.
Della partita hanno preso parte l'ex Almighty Ricky Warwick, il bassista Marco Mendoza ed in seguito Jimmy DeGrasso(batteria) e Damon Johnson (chitarra) e tra un tour e l'altro ecco prendere vita l'ipotesi di scrivere pezzi nuovi per far rivivere il mito Thin Lizzy, senza però utilizzare di nuovo il monicker storico, ma dando vita ad una seconda incarnazione denominata appunto Black Star Riders.
Fatto il giusto preambolo vado diretto al sodo e quello che mi appresto a recensire è davvero un gioiello di puro hard rock, semplice diretto e live, con pezzi che sono destinati ad entrare in testa ( e speriamo nella storia) già dopo pochi ascolti.
Il filo diretto che lega il passato ed il presente è davvero unico, con il songwriting di Warwick che si cala alla perfezione nel mito di Lynott, senza però mai cadere nel banale, ma celebrando il giusto tributo.
Basta ascoltare la tripletta iniziale con la rocciosa titletrack che da il nome all'album, la spettacolare ed anthemica  Bound for Glory ( ..and he knows he can never win/ he's just trying to lose a little more slowly ..questa si che è una melodia fuorilegge!), oppure Kingdom of the Lost, con il suo incedere folkeggiante che rimanda ai ricordi della natia Irlanda.
I testi di Warwick sono spettacolari e raccontano storie di vita borderline, cosi come il suo cantato che si avvicina al calore di Lynott.
La band gira davvero a mille, Scott Gorham snocciola riff granitici e superbi assoli che non possono non far felici coloro che sono cresciuti con l'hard rock sanguigno e vigoroso dei Seventies.
Kissin the Ground è melodica e ruffiana al punto giusto, mentre Someday Salvation mi ricorda i Thin Lizzy più scanzonati e festaioli.
Di Rimando viene esaltato il lato più cupo del songwriting con Hey Judas e la tetra e sinuosa Hodoo Voodoo, mentre il finale è affidato ad una lunga digressione in territori blues ( Gary Moore docet) con l'intensa Blues ain't so Bad.
In conclusione i BSR sono la logica evoluzione e prosecuzione di quel pezzo di storia chiamato Thin Lizzy, tanta è l'attitudine e le coordinate musicali che coinvolgono i musicisti. Ritengo giusto lo scegliere un nome nuovo e proseguire cosi una carriera parallela, ma sempre ben distinta.
Consigliato a chi vuole ascoltare dell'ottimo e sincero hard rock, che non inventerà nulla...ma fa stare dannatamente bene!!
www.blackstarriders.com
www.facebook.com/BlackStarRidersOfficial
spotify:album:2jtBDBKJG9UqjEpK9hOH6P






mercoledì 19 giugno 2013

Resurrection Death SS (Lucifer Rising/Self 2013)











Poco meno di un mese fa recensii l'ultimo comeback discografico degli Extrema, band storica del metallo tricolore, ed ora ecco tra le mie mani il ritorno discografico di un'altro gruppo che ha scritto pagine importanti di storia: i Death SS!
Ho sempre seguito il percorso artistico della band di Steve Sylvester ed ero rimasto al loro Settimo ed ultimo Sigillo (The Seventh Seal, 2006) che decretava la fine di un percorso artistico ed esoterico che ha sempre caratterizzato le tematiche della band toscana.
Però il leader maximo Steve Sylvester non è certamente stato con le mani in mano in questi anni, scrivendo colonne sonore per film horror e partecipando come attore ad alcune serie televisive come L'Ispettore Coliandro o S.I.S.
Ed ecco che all'improvviso maturano i tempi per rimettere in pista il monicker Death SS, con una rinnovata line up ed una buona serie di pezzi, alcuni già editi perchè commissionati come soundtrack di film, ed altri invece inediti, tenuti nel cassetto e sviluppati per questa nuova "Resurrezione" musicale.
L'opener Revived parte col botto e ci presenta i Death SS in splendida forma con il loro sound inconfondibile: riff serrati molto industrial, un tappeto di effetti elettronici e l'inconfondibile voce malefica di Steve Sylvester, da sempre molto attento alle evoluzioni musicali che lo circondano, pronto a carpire il meglio e plasmarlo alla sua maniera per creare il sound giusto per la sua creatura.
Le tematiche occulte la fanno da padrone, soprattutto i rimandi ad Aleister Crowley,vera musa ispiratrice, soprattutto in The Crimson Shine, che rimanda al periodo di Panic, a mio avviso il capolavoro assoluto della band.
Nonostante il taglio moderno dei pezzi, troviamo molti riferimenti al metal più classico, grazie anche agli inserti di chitarra di Al DeNoble che tesse magnifiche melodie in The Darkest Night e Dyonisius che rievocano invece gli anni di Heavy Demons e Black Mass.
Continuando il viaggio all'interno di questo album ci imbattiamo nella traccia più "malata" ovvero Ogre's Lullaby, altra colonna sonora, dotata di un aurea davvero malefica per l'incedere lento e le atmosfere alla "Dario Argento"con la voce di Steve Sylvester che sembra un rantolo. Per certi aspetti sembra un improbabile accostamento tra Marylin Manson e certo black metal sperimentale.
La successiva Santa Muerte si rifà al culto in voga presso i narcos sudamericani ed è il preludio a quello che considero il vero capolavoro dell'intero album: The Song of Adoration, una lunga suite che fa confluire elementi doom, progressive e metal uniti ad elementi arabeggianti ed egizi.Un viaggio, quasi psichedelico, che merita svariati ascolti per carpire al meglio le innumerevoli sfumature presenti all'interno di esso: in questi nove minuti la band di Steve Sylvester ha davvero superato se stessa con una composizione maestosa.
A chiudere l'album troviamo la scanzonata Bad Luck, un rock and roll alla Alice Cooper, che vuole mandare a quel paese i detrattori della band che da anni si sono trincerati dietro la solita solfa che i Death SS portino sfiga...ecco servita la risposta!!
A conti fatti il ritorno discografico di Steve Sylvester è davvero gradito, vista l'alta qualità dei pezzi presenti sull'album, anche perchè non ho mai creduto fino in fondo alla morte discografica di questa band, visto che ha ancora parecchio da dare al suo pubblico. Evidentemente si era esaurito un percorso e serviva del tempo giusto per ricaricare le pile e tornare a cavalcare l'Apocalisse come raffigurato nella cover di questo album!
Bentornati!!!
WWW.DEATHSS.COM
www.facebook.com/deathssofficial
The Cursed Coven (Official Death SS Fan Club)
spotify:album:5TmUZi4bF400emQSh0HDO3



venerdì 7 giugno 2013

Raining Rock Jettblack ( Spinefarm Records/Universal 2013)












Negli ultimi anni, nel Regno Unito, è rinato un notevole interesse nei confronti di sonorità anni Settanta e Ottanta, legate al periodo d'oro dell'hard rock e del metal. A partire da reunion e festival fino al proliferare di numerose bands che hanno creato una nuova scena parallela ai trend musicali che vanno per la maggiore.
Tra questi ecco i Jettblack, giovane band proveniente da Wycombe con un esordio discografico nel 2011 e numerose apparizioni sui palchi dei maggiori festival targati UK.
Con questo Raining Rock arrivano a dare un seguito al loro fortunato debut, regalandoci una sfilza di ottime songs dotate di tiro e melodie a profusione che difficilmente possono lasciare indifferenti.
La title track è un anthem potente sulla scia di Judas Priest e Accept ( tra l' altro vi è anche una versione con special guest proprio Udo Dirchschneider) e va diretta dove deve colpire: nelle palle!
Anche la successiva Less Torque,More Rock affonda i denti nell'hair metal anni Ottanta con chitarre grintose e cori melodici che avrebbero fatto fortuna sui dischi di Warrant e Whitesnake.
Proprio la band del vecchio Coverdale viene presa come fonte d'ispirazione per Prison of Love, un' altra anthemica ballad che negli anni giusti avrebbe sfondato le rotation di radio e TV.
Tra i pezzi migliori Something About This Girl, con un chorus davvero catchy e la veloce System, dove i Nostri non esitano a pestar duro.
L'album si chiude con una ballad, The Sweet and the Brave, con ottime aperture melodiche e con arrangiamenti che la valorizzano ancora di più.
In sostanza i Jettblack non inventano nulla di nuovo, ma dimostrano di aver imparato la lezione e di saper scrivere ottime canzoni, ritagliandosi cosi il loro spazio  nella nuova scena hard rock inglese.
Da seguire!
I hear the drumming of thunder,
The rumble of rain,
A wail on the wind,
And the voice of pain,
So I step outside to find it's raining rock and roll

The air is getting heavy,
The metal has come to touch,
The sky turns a brutal black,
And breathing becomes too much,
So I step outside to find it's raining rock and roll,
So I step outside to find it's raining rock and roll,
Yeah
www.myspace.com/jettblackuk

www.facebook.com/jettblackuk
spotify:album:0TCHEW1rekATyL1U65SK6i


mercoledì 29 maggio 2013

The Seeds of Foolishness Extrema (Fuel Records 2013)

        
                                                                                                                                                                         
Se penso ad una band che ha rappresentato la mia gioventù costellata da concerti e pogate, ecco mi vengono in mente gli Extrema! La band milanese era sempre on the road, pronta a far divertire e spaccare sul palco, ha aperto per i Metallica sotto un diluvio universale nel 1993 al Delle Alpi di Torino e considero il loro album "Tension at the Seams" un capolavoro, che ad oggi, custodisco in vinile e non ha perso un oncia della sua carica.
Poi con gli anni le nostre strade si sono un pò allontanate, anche se dal vivo, quando capita occasione non me li faccio mancare,ma dal punto di vista discografico hanno vissuto alti e bassi ,che, comunque con orgoglio e passione hanno contraddistinto la loro lunga carriera.
E adesso mi trovo tra le mani questo The Seeds of Foolishness, un disco che li rilancia in pieno: un ambizioso concept sulle teorie degli Illuminati e sui complotti massonici che disegnano le trame occulte di questo mondo, ma anche un ottimo album di modern metal, curato alla perfezione con davvero tanta carne al fuoco e che cresce ascolto dopo ascolto.
Quello che salta subito all'orecchio è l'alto livello compositivo e la vasta gamma di riff e assoli che portano a canzoni strutturate ed elaborate, ma anche l'eterogeneità di suoni è davvero ad ampio raggio.
Si va dal classico "Pantera Sound" che spesso si trova tra le canzoni degli Extrema, diventando un pò il loro trademark fino al "Bay Area Thrash" di stampo classico, soprattutto in tracce come l'opener Between the Lines, tellurica e carica di riff, o come Pyre of Fire,da cui è stato girato il primo video.
Se i primi quindici minuti non vi hanno ancora fatto staccare la testa dal collo, ci penserà Ending Prophecies, davvero superba nei suoi continui cambi di atmosfere e passaggi degni dei migliori Meshuggah, mentre Again and Again mi ricorda i Faith No More più aggressivi, soprattutto nel cantato di GL Perotti, una vera sorpresa, che in questo disco supera se stesso per come sfrutta le sue abilità canore: dal growl allo scream fino ad un cantato melodico: Una grande prestazione che si estende a più livelli. Provare per credere, ascoltando Bones, un hard rock psichedelico che ricorda gli Alice in Chains più cupi.
Il finale è affidato a Moment of Truth, una ballad dal sapore southern che chiude alla perfezione questo album.
Ad ogni modo se certi paragoni sono inevitabili, è fuori dubbio che questo sia un disco maturo che si regge in piedi da solo: una rinascita per gli Extrema, che negli ultimi anni avevano avuto qualche appannamento, ma che hanno saputo tirar fuori dal loro cilindro un lavoro ambizioso ed al contempo fresco e carico di energia.
Anno 2013..è ancora tempo per il loro "fottuto massacro collettivo!!!"
P.S.
Il prossimo 25 giugno il "massacro" si compirà prima dei Motorhead a Milano!!
ww.extremateam.com
spotify:album:7767iviQHnBsOsjfODquqa





sabato 22 dicembre 2012

Drugs, God and the New Republic Warrior Soul (Geffen Records1991)












Che cos'è una cult band? Si definisce tale una band che durante la propria carriera ha proposto musica innovativa ed originale, raccogliendo ottime recensioni dagli addetti ai lavori e creandosi una buona reputazione grazie al continuo passaparola dei fans, ma che , nonostante tutto rimane sempre relegata ai margini del business discografico, per raccogliere poi, a distanza di anni, i meritati frutti del lavoro svolto.
Si può definire tale la band capitanata da Kory Clarke, istrionico leader di una delle migliori realtà degli Anni Novanta? A mio avviso si, dato che all'epoca i Warrior Soul licenziarono un buon filotto di album che fecero splendere la loro meteora per almeno un lustro.
Drugs, God and the New Republic è il  secondo lavoro, che permise loro di fare un notevole salto di qualità grazie ad un sound potente e melodico, a metà tra lo street metal ed il punk americano, con i testi di Kory sempre molto attenti al contesto sociali e carichi di rabbia al vetriolo.
Sin dall' intro strumentale si nota subito l'originalità di una band davvero fuori dagli schemi, un suono carico di chitarre ma allo stesso tempo ipnotico ed ammaliante che deflagra nella cover dei Joy Division, Interzone.
Anche qui una mosca bianca nel panorama musicale dell'epoca, dato che la band di Ian Curtis non era ancora cosi idolatrata come in questo ultimo decennio, ma la versione di Kory Clarke e soci la rende aggressiva ed anarchica, un vero e proprio anthem a metà tra il punk ed il metal.
La title track affonda i denti in sonorità che si sarebbero affermate qualche anno dopo a qualche centinaio di chilometri da New York. Sto parlando di Seattle e del movimento grunge, visto che sia il cantatato che la musica dei Warrior Soul è fortemente accostabile ai lavori degli Alice in Chains prima maniera, anche se in un formato più aggressivo. La critica coniò un termine per etichettare la loro musica, definendola "acid punk", ma i punti di contatto con la Seattle scene sono davvero tanti, basti ascoltare la successiva Jump for Joy per capire quanto fossero avanti i Warrior Soul.
Il lato più metal viene fuori nel singolo The Wasteland, sostenuto da un ottimo riff di John Ricco, un ottimo ed originale chitarrista, a mio avviso molto sottovalutato all'epoca, che pagò il dazio di trovarsi al crocevia tra il declino dei guitar heroes anni Ottanta e la nuova voglia di ribellione punk rock dei Novanta.
Proprio Wasteland contiene liriche manifesto del Warrior Soul-pensiero ovvero un incendiario atto di anarchica rivolta su di uno scenario di degrado urbano.
I can't live unless I'm free you've gotta run to stay with me
I move from town to town I'm livin' on the underground
hey baby come with me I meet a lot of good company
to beat the system move around it's the only way to freedom today
find the freedom today if I make bail tell you where I go
gonna cross the border into mexico tequila's cheap as sunshine
wind up bangin' everything in sight I'm free and that's a fact
once I leave I ain't never comin' back
I'm in the wasteland

Il disco prosegue con altre due gemme come Children of The Winter, un intenso ed emozionante pezzo metal che vede Ricco sugli scudi e Kory Clarke intonare un liberatorio inno di speranza e di lotta, forse uno ei migliori testi di questo album
this fight's for you and me in the land of the free
the rock minority against hypocrisy
they crucify our words but they don't understand
we wan't a better world and a share of our land
they point at us but we're their children
we fight because they thaught us to be free
the land where our fathers died the land of the pilgrims pride
forced us to decide if we stand or if we hide
belive in me we'll fight forever
until we're free
we'll fight together oh , ya come on down
children of the winter walk into the springtime
the fathers fought a revolution a fight for what we belive in
our rights sown there's no confusion
I don't need to be forgiven to be forgiven
the land where our fathers died the land of the pilgrims pride
my hatred I can't hide I'll kill before they take my rights
come walk with me we'll go to heaven
the world will be our dream toghter
come take my hand rejoice forever
the promised land if we remember
children of the winter
walk into the springtime 

e la successiva Hero, una power ballad che riporta i Warrior Soul nei territori hard rock più classici, ma che regala una delle più belle songs del loro repertorio e, soprattutto degli Anni Novanta.
Con questo album inizia il grande salto della band che la vedrà  realizzare altri due dischi per poi sciogliersi e rinascere sotto altri monicker. Questo è un ottimo punto di inizio per scoprire tutta la discografia di questo gruppo e conoscere il mondo musicale di Kory Clarke, sicuramente un personaggio di culto che, a suo modo, ha lasciato il segno nel panorama rock/metal dei Nineties.
www.myspace.com/warriorsoulinfo
www.facebook.com/warriorsoulofficial
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martedì 24 gennaio 2012

Hisingen Blues Graveyard (Nuclear Blast Records 2011)












Nel corso del 2011 abbiamo assisitito ad un vero e proprio revival di sonorità anni Settanta, soprattutto da parte di bands provenienti dal continente europeo: dagli inglesi Rival Sons e Gentleman's Pistols fino ai dirmipettai (Irlanda) The Answer, passando per i Black Country Communion di sua maestà Glenn Hughes. Ma tra i nomi che più mi hanno colpito vi propongo i Graveyard, giovanissima band svedese che, con questo secondo album, merita di essere considerata come una delle rivelazioni dell'anno appena conclusosi.
Prendete Deep Purple, Uriah Heep, Black Sabbath, Led Zeppelin, mescolate a fuoco lento con dell'ottimo blues ed ecco  creata la ricetta di questi Graveyard. Ah Dimenticavo: tanta sincera passione ed un amore smisurato per quelle sonorità retrò che non fanno mai scadere il prodotto in un mero esercizio anacronistico, ma trasportano l'ascoltatore in un epoca lontana, agli albori della musica rock e lo tengono inchiodato dall'inizio alla fine di questo album.
L'opener Ain't Fit to Live Here è la classica song d'apertura che non deve fare prigionieri sulla scia di una Burn o di una Communication Breakdown, con il cantante Joakim Nilsson che sfoggia il più classico dei falsetti. Ma il meglio arriva con le successive No Good, Mr Holden, un sulfureo hard-blues da Sabba Nero e la titletrack del disco ( a proposito..Hilsingen è il quartiere popoloso di Goteborg da dove arrivano questi ragazzi), dalle tinte più psichedeliche e stoner.
La produzione in analogico ( manna dal cielo in questi tempi di freddo digitale) accentua ancora di più le calde atmosfere di questo album, conferendo colore ed una vera atmosfera vintage ai brani; prendete quel piccolo capolavoro di Uncomfortably Numb, che di pinkfloydiano ha ben poco, ma sembra uscita da una session tra Janis Joplin ed i Led Zeppelin se mai avessero potuto incontrarsi!
La strumentale Longing, dagli echi morriconiani ( considero il Nostro Morricone un precursore dello stoner per le sue soundtracks spaghetti-western!) è posta da cuscinetto prima delle cavalcate hard blues di Ungrateful for the Dead e RSS che ci conducono alla finale The Siren, una lunga e sofferta canzone giocata su parti lente ed un infuocato chorus sostenuto da un roboante drumming e pregevoli assoli!
Tirando le conclusioni di questa recensione, credo che i Graveyard, con questo album abbiano realizzato una delle pagine musicali più promettenti del 2011, senza inventare nulla di nuovo e senza issarsi a salvatori del rock and roll. Se cercate un' oretta scarsa di semplice ed onesto hard rock d'annata, Hilsingen Blues è un disco che fa al caso vostro e sono sicuro che supererà anche la dura prova del tempo, non finendo sotto tre dita di povere come quella pila di cd che tenete sugli scaffali. L'umiltà e l'onesta pagano sempre!
P.S. Se dovessi dare un voto a questo disco, lo alzerei di mezzo punto per la splendida cover, only for Vynil Lovers

www.myspace.com/graveyardsongs
www.facebook.com/graveyardofficial
TeePee Records   (Label di Goteborg per cui hanno debuttato i Graveyard)

lunedì 31 ottobre 2011

The Hunter Mastodon (Roadrunner Records 2011)












E' ormai un dato di fatto che il metal sia un genere che viva di rendita sui fasti ottantiani e tira avanti con le solite reunion dei Dinosauri che hanno sempre riempito i cartelloni dei festival più gloriosi. Ma è bello sapere che ,periodicamente, qualche novità che introduca un pò di freschezza ed innovazione ci sia sempre, tanto da far progredire un genere statico per antonomasia. Uno dei nomi di punta usciti in questi ultimi anni sono sicuramente i Mastodon, band americana che in poco tempo ha conquistato un ruolo primario nello stardom metal dell'ultimo lustro.
La band di Atlanta si è messa in evidenza grazie a capolavori come Leviatham e Blood Mountain, dove pur suonando un ibrido estremo tra sludge, hardcore e stoner, ha sempre pubblicato dischi originali, sfoderando una tecnica notevole e creandosi un immagine legata a visioni apocalittiche e mitologiche.
Ma con il penultimo Crack the Sky si denotava già un passaggio a sonorità più melodiche ed aperte con un parziale abbandono di vocals gutturali a favore di un cantato più pulito. Diciamo quindi che questo è il passo prima di The Hunter, ultimo album dei Mastodon e, probabilmente il primo di un nuovo corso per questa sorprendente band.
La composizione dei brani si snellisce e viene liberata dai numerosi passaggi strumentali e dai cambi di tempo come in passato: ora le canzoni sono strutturate in maniere più semplice e diretta, come nel caso della doppietta iniziale Black Tongue-Curl of the Burl, un mix tra Sabbath, Metallica e Queens of the Stone Age.
I due chitarristi macinano riff rocciosi e mai banali, mentre il drumming di Brann Dailor è sempre il marchio di garanzia Mastodon:veloce,tellurico ma estremamente versatile.
Anche l'utilizzo di soluzioni a più voci si rivela un ottima scelta, soprattutto in pezzi più "psichedelici" come Blasteroid o Stargasm. Le progressioni strumentali non sono state abbandonate, seppur il minutaggio delle canzoni si sia notevolmente abbassato, ma ora i Mastodon vogliono arrivare diretti al sodo, vogliono che i pezzi di The Hunter siano più assimilabili senza però cadere in facili tentazioni commerciali.
C'è spazio anche per momenti di estrema calma, come nella meravigliosa e cosmica titletrack, anche qui un ibrido tra i Pink Floyd ed il southern rock dei Lynyrd Skynyrd: se mai si dovesse mettere un etichetta ai Mastodon versione 2011 si potrebbe classificarli sotto il nome "Psychedelic Southern Rock" tanto questa fusione di stili suoni cosi bene.
L'unica concessione ai suoni abrasivi del passato la si trova in Spectrelight,dove anche il cantato è un urlo gutturale figlio degli echi sludge di quando i Mastodon dividevano i tour con gli High on Fire.
Ad ogni modo questo è un disco che divide: i fans oltranzisti arricciano il naso,mentre un pubblico sempre più vasto rimane affascinato dalle sonorità di The Hunter. Se si rivelerà capolavoro solo il tempo potrà dirlo, ma mentre io continuo ad ascoltarlo a ripetizione, si fa sempre più strada il pensiero verso un altra band che trent'anni fa iniziò come fulgida promessa dell'underground, rompendo tutti gli schemi, per poi pubblicare un disco con una copertina tutta nera e conquistare il mondo....ai posteri l'ardua sentenza!
www.mastodonrocks.com
www.myspace.com/mastodon

sabato 28 maggio 2011

Tuonela Amorphis (Nuclear Blast records 1999)













Dalle fredde e lontane lande finniche ecco gli Amorphis, un nome storico per chi ascolta metal, ma soprattutto una pietra miliare ed una certezza di ottima musica che, raramente ha toppato un uscita discografica, seguendo sempre la propria evoluzione musicale.
Gli Amorphis si formarono attorno ai primi anni'90 suonando un buon death metal dalle forti connotazioni doom e da una equilibrata dose di melodia fino a concepire il loro primo capolavoro Elegy. Da qui in poi il loro corso cambiò radicalmente, abbandonando progressivamente la componente estrema della loro musica per sperimentare sonorità di più ampio respiro, legate agli anni Settanta ed al folk, pur rimanendo un nome di punta della scena metal mondiale.
Proprio questo Tuonela è da considerarsi il disco della svolta e, nonostante sia un disco di transizione nel percorso artistico degli Amorphis, la qualità è altissima cosi come l'intensità emotiva di ogni singolo pezzo.
Partiamo dal concetto di Tuonela, che nella mitologia finlandese, è un luogo dell'aldilà, dove i Morti attendono il loro destino. Una sorta di Purgatorio cristiano, che viene citato nel libro sacro del Kalevala, un testo da cui gli Amorphis hanno sempre tratto ispirazione per i loro album.
Ma Tuonela ha anche un altro significato: Tristezza! Ed è proprio questo sentimento che viene evocato in tutto lo scorrere di questo album e proprio la titletrack contiene la strofa-manifesto che potrebbe raccogliere il messaggio che i nostri hanno voluto trasmettere
Sorrow is my bread
And tears I drink as wine
Oblivion my happiness
Ground under teeth of time

Ma attenzione non stiamo parlando di cupa e fredda depressione, ma bensì viene evocata una romantica figura dell'essere tristi e malinconici, un caldo abbraccio che ci trasporta nell'oblio, un' estate che piano piano si trasforma in autunno ed anche il passaggio naturale dalla vita alla morte assume i contorni più dolci.
Musicalmente vengono abbandonati i lidi estremi (unico traite d'union è Greed con il suo cantato in growl, ma a mio parere è il pezzo più debole dell'album) a favore di sonorità più calde e di ampio respiro, direttamente figlie dei Seventies, anche se gli stilemi del metal, riff ossessivi ed una sezione ritmica potente non vengono mai meno, ma la novità sono l'uso di sitar, Hammond e il sassofono per dare più profondità e colore alle varie canzoni, elementi che poi diverranno un marchio di fabbrica degli Amorphis stessi.
Le dieci tracce sono unite da un sottile filo conduttore, sia dal punto di vista musicale, che da quello più strettamente concettuale e, se le iniziali The Way e Morning Star sono dirette e ben piantate nel hard rock roccioso dei Settanta è con Nightfall che risaltano le prime sperimentazioni con l'innesto di un sax che traccia una delirante linea sonora per tutto il pezzo. La tiltle track è forse la punta di diamante, una perla di immensa malinconia, giocata su di un mid tempo e un cantato caldo e disperato. Il finale è un preludio per la sopracitata Greed, ponte con il passato, mentre Divinity, all'epoca il primo singolo, ci riporta alle prime due tracce dell'album: diretta e lineare e con un chorus coinvolgente.
Il sound prodotto dagli Amorphis è caldo ed ammaliante, un netto contrasto con le atmosfere che vogliono evocare, un suono saturo dove le chitarre vengono ben supportate da un tappeto di tastiere dai suoni siderali che evocano terre lontane e paesaggi cosmici. L'ennesimo tributo alle fughe strumentali dei grandi del passato come Pink Floyd o Uriah Heep.
Con Rusty Moon invece vengono esplorati territori più legati al folk, un altra caratteristica che ha contraddistinto gli Amorphis, un continuo legame con la loro terra d'origine, non solo a livello di testi, ma anche musicalmente e proprio in questo pezzo, dasll'andamento orientaleggiante, la matrice popolare si fa più evidente, grazie anche all'utilizzo del flauto ( e qui mi vengono in mente Jethro Tull e ancora Uriah Heep), che segue tutto l'andamento della canzone creando un ibrido Folk-progressive metal!
Il finale è affidato a Summer's End, la degna conclusione di questo album, il sigillo di Tuonela con il passaggio
Tread my path to summer’s end
This bequest I leave you she says
You will see what could be evergreen
Turn to copper and fade to gray

che non lascia scampo, l'incedere implacabile del tempo ed il deteriorarsi di tutto.
Co questo album gli Amorphis apriranno una nuova fase della loro carriera che si protrarrà con la sperimentazione di Am Universum, ma cosa ancor più importante Tuonela diverrà una fonte d'ispirazione per molte band a seguire vedi i connazionali Sentenced o il loro progetto postumo Poisonblack.
http://www.amorphis.net/
www.myspace.com/amorphis
www.facebook.com/amorphis